Wednesday, November 26, 2008

Bob Dylan's Dream

Nell'aprile 2009 Internet non esisteva più. Un attacco di hacker, una mossa degli uomini in nero, nessuno lo sapeva con precisione, ma era ormai da circa otto, nove mesi che era impossibile collegarsi. Ovviamente, il flusso globale di notizie, di ogni genere, anche quelle musicali, era anch'esso nel black out completo. Panico? Piuttosto, anche perché la notizia, un anno prima circa, a gennaio 2008, che Bob Dylan aveva smesso di fare concerti senza dire se si trattava del tanto temuto ritiro dalle scene, la fine del Never Ending Tour, aveva lasciato tutti, fan e non, con un macigno sullo stomaco.

Fu così che la notizia, giunta sui giornali, la vechia carta stampata che adesso era tornata ad essere la fonte primaria di news come ai vecchi tempi, che Bob Dylan sarebbe tornato sulle scene proprio con un concerto, il 15 aprile, al teatro Arcimboldi di Milano, venne accolta con un boato virtuale di gioia. I cinici commentarono bah, la venue è finalmente decente, invece di quella merda di Forum di Assago, però sarà il solito concerto con quella band di sfigati e poi lui non ha più voce e non si cura di arrangiare un po' le sue vecchie canzoni. Che poi fa sempre quelle.
Nonostante ciò, i circa 2mila biglietti venduti alla cifra record, per l'Italia, di 200 euro andarono via nel giro di 5 minuti (non si poterono comprare su Internet, ovviamente, ma facendo file di ore e ore davanti alle vecchie rivendite).

Perché Dylan tornava sulle scene proprio dall'Italia? Nessuno lo sapeva. Qualcuno ricordò che una volta, durante un concerto a Torino, nel 1998, aveva a un certo punto bofonchiato un "è bello essere di nuovo nel più bel paese del mondo". E tanto bastava.
Chi giunse al teatro vide un palco spoglio, con uno sgabello al centro, un microfono davanti e un vecchio pianoforte verticale sulla sinistra. Alcuni cominciarono a fremere: vuoi vedere che questo fa un concerto da solo, come non ne fa più dal 1965? Alle 9 precise le luci in sala si spensero. Il palco era nel buio più completo, il silenzio era qualcosa di fisico. Si sentirono dei passi sulle assi di legno e una piccola torcia, sulla destra illuminò un paio di stivali. Si sentì il rumore metallico di corde di chitarra acustica sfregate, poi una luce bianca sul retro del palco illuminò una figura aggrappata allo sgabello. Nessuna luce lo illuminava sul volto, si poteva solo scorgere una silouhette nera che attaccò a suonare una vecchia Martin acustica. Lo sferragliare di note era magia pura, poi la voce, bella, forte, rotonda e piena, attaccò Most of the Time, suonata come la si può sentire su Tell Tale Signs, acustica e con tanto di lunghi parti di armonica.
Il pubblico in sala era esterefatto che quasi si dimenticò di battere le mani alla fine del pezzo. Sempre al buio, con le luci dietro, Bob Dylan attaccò una dolente, meravigliosa, To Ramona. A questo punto tutti i presenti si alzarono in piedi tributando una standing ovation che durò oltre 5 minuti.
L'uomo sul palco venne finalmente illuminato: indossava una corta giacchetta nera stile messicano, con decorazioni varie; una t-shirt bianca, un paio di jeans, stivaloni a punta. Bob Dylan sorrideva compiaciuto. Si mise a parlare, sereno, rilassato, dicendo come aver lasciato i palchi per più di un anno gli avesse fatto bene alla mente ma anche alla voce, e scoppiò a ridere divertito.

Si alzò, si diresse al pianforte sula sinistra e ne uscì una vigorosa, piena di sentimento soul, versione di Dignity, seguita da una trascendentale Queen Jane Approximately e una, nella sua intensità vocale, stordente If you see her say hello.
"Adesso devo chiamare qualche amico" disse tornando al centro del palco. Giunsero, uno dopo l'altro, Larry Campbell che imbracciava una fisarmonica; Marty Stuart con un mandolino; il leggendario bassista inglese Danny Thompson e Jim Keltner a una batteria che era solo un rullante e un charleston. "Questa canzone parla di una ragazza che ho lasciato sulla riva del fiume rosso" e le note inconfondibili e purissime di una catartica Red River Shore si alzarono alte nel teatro.

I presenti, ancora oggi, fanno fatica a ricordare che canzoni furono poi eseguite. Quasi sicuro che fece Tomorrow's Long Time, così come Corrina, Corrina, piena di sentimento. Al pianoforte fece anche When He Returns e prima dell'ultimo bis una dolcissima Sad Eyed Lady of the Lowlands. Tra un brano e l'altro raccontava lunghi anedotti su come e perché aveva scritto queste canzoni.
Tornò sul palco per i bis accompagnato da "un'amica speciale", come definì la sempre bellissima Emmylou Harris. Tributarono un ricordo a Gram Parsons, ovviamente, con una delicata e toccante Love Hurts, poi fecero One More Cup Of Coffee.
Rimasto di nuovo da solo, per l'ultimo pezzo decise di ricordare l'unico, grande e vero amore della sua vita, e lasciò scivolare una Sara da incanto.
Nel camerino, dopo il concerto, incontrando alcuni giornalisti, al perché questo ritorno sulle scene e questo tipo di spettacolo, disse semplicemente: "Avevo smesso di fare concerti perché mi ero rotto le scatole di vedere le scalette dei miei show pubblicate ogni giorno, e i commenti dei fan, e la gente che si mandava le canzoni con il cellulare. Adesso che Internet non c'è più, posso riprendere la strada. Aspettatevi altre sorprese, sto già pensando di fare alcune date in America in duo, con il mio amico Bruce Springsteen. Io e lui e basta, pensate che alla gente piacerà?".

Ps: il 15 aprile 2009 Bob Dylan - quello vero - suonerà al Forum di Assago

Tuesday, November 25, 2008

Thanksgiving, 1976

Alcuni di loro sono morti. Altri si sono ritirati dalle scene. Nessuno, comunque, è stato più in grado di superare quello che, musicalmente, questi uomini e donne avevano fatto fino a quel giorno. Che era il 25 novembre 1976, quando uno dopo l’altro sfilarono sul palco del Winterland di San Francisco i più brillanti esponenti di una generazione che con le loro canzoni avevano cantato utopie, speranze, disillusioni di un momento storico unico di quel secolo, il 900. Stavano dicendo addio, ma non lo sapevano. Ma suonarono come se fosse stata l'ultima notte della loro vita, meglio di ogni altra volta.

Fu la sera dell’ultimo valzer, quando Van Morrison scalciando come un indemoniato terrorizzò quanti lo stavano guardando. Quando Eric Clapton tornò a suonare la chitarra solista da dio, come non faceva da anni. Sembrava non volersi fermare più. Quando Neil Young si presentò sul palco con il naso impolverato di cocaina (che il regista abilmente fece scomparire, su sua richiesta, dalle immagini del film). Quando Bob Dylan con i suoi vecchi amici con cui aveva sconvolto il mondo esattamente dieci anni prima, tornò a suonare “fucking loud”, facendo riecheggiare la voce di Walt Whitman su un palcoscenico rock. E quando Ronnie Hawkins lanciò ancora una volta quell’urlo, quello del rock’n’roll. Joni Mitchell seduceva e incantava, mentre, pacioso e con lo sguardo di chi sapeva già come sarebbe andata a finire, Muddy Waters benediceva tutti e The Band mandava in scena l’ultima esibizione di un’America che era già scomparsa con i morti della Guerra di secessione.

Fu l’ultimo valzer del rock, e il regista di Taxi Driver lo coglieva con capacità a tutt’oggi insuperabile: non si vedono mai gli spettatori, nel suo film. Questa è una celebrazione di quegli uomini sul palco.
“Ecco cosa è L’ultimo valzer” dice nel film Robbie Robertson. “Sedici anni on the road. Un numero che ti fa paura. Non potrei vivere per vent’anni sulla strada. Non penso di poter neanche discutere una cosa del genere”. Avrebbe tenuto fede a quelle parole. Non sarebbe più tornato on the road.

Friday, November 21, 2008

La repubblica invisibile di Oliver James

“La morte non è, ovviamente, accettata universalmente. Nella musica tradizionale la gente poteva accettare, attraverso le canzoni, che il mistero è un fatto, un fatto tradizionale”
(Bob Dylan, 1966)

C’è un uomo solo che vaga per tutte le canzoni del disco, o è un demonio. Potrebbe essere un uomo che impazzito per il dolore si sta trasformando in un diavolo. L’urlo che esce fuori da Tiger Mountain Peasant Song è un urlo straziante, dell’uomo che è andato a visitare la tomba (di chi? di Oliver James? o la sua stessa tomba?) nei boschi freschi di rugiada: “Cara ombra viva e che stai bene, come può morire un corpo? Dimmi tutto, tutto quello che è vero”. Entra in città, un mattino “scosso dalle premonizioni della mia morte” e poi l’invocazione: “Jesse, non so cosa io abbia fatto, mi sto trasformando in un demonio”. Era dai tempi di Robert Johnson che non si sentiva in una canzone una tale disperazione e angoscia, nel testo e nel modo in cui la bellissima Tiger Mountain Pleasant Song viene eseguita in splendida solitudine.

Il diavolo è una presenza attiva anche in Your Protector: “Mentre giaci morente accanto a me, baby, io sono quello del gioco a pistolettate, mi aspetterai, aspetterai l’altro me stesso? Stai correndo con il diavolo”.
Il paesaggio in cui ci si imbatte per tutto il disco, tranne apparenti momenti di serenità, è desolato. Le Blue Ridge Mountains saranno anche un bel posto rigoglioso della sua natura, ma quello in cui stiamo camminando è un inverno spoglio, freddo e certamente poco accogliente. In White Winter Hymnal c’è un soldato inglese durante la guerra civile americana che sta osservando il suo amico Michael cadere morto sotto i colpi da fuoco: “E m girai indietro ed eccoti, Michael stai cadendo e trasformando la bianca neve in rossa come le fragole d’estate”.

Il protagonista vaga, non si capisce se nei luoghi della sua memoria, tra persone amate che sta cercando di ritrovare. Il “brother” (O brother, where are thou, come diceva quel film) è un elemento costante per quasi tutto il disco (“Non dici nulla dei tuoi ultimi due anni, guarda le tue mani aggrinzite e un coltello d’argento, venti dollari in mano che te li fanno stringere così forte, tutte le evidenze della tua vita vacante, fratello mio tu sei nato e cercherai di fare quello che hai fatto prima, lascia che la tua famiglia ti riporti alla tua mente originale”, He doesnt know why) o in quelli della vita reale (“Il mondo è vivo adesso, dentro e fuori della nostra casa, al mattino quando il passero e il gabbiano volano e Jonathan ed Evelym si stancano… mentimi se vorrai in cima alla collina di Beringer, dimmi quello che vuoi, ogni vecchia bugia andrà bene, ma riportami da te”, Ragged Wood).

Alla fine, Oliver James (era lui il protagonista incontrato lungo tutte le canzoni del disco?) è morto: “Sulla strada verso la casa di tuo fratello, solleverai il suo corpo dalla spiaggia e lo porterai a casa. Si torna alla casa di tuo fratello adesso più vuota, mia cara, il suono di antiche voci tintinna delicato nel tuo orecchio: Oliver James, non si bagnerà più nella pioggia”. La domanda permane: chi era, Oliver James, e che cosa aveva fatto di male nella sua vita?

Il disco dei Fleet Foxes è un disco straordinario. Ci ho messo mesi a entrarci dentro, ma adesso è impossibile uscirne. Quelle armonie vocali che sembrano quasi dei canti di antichi monaci oltre il tempo, in un tempo immemorabile, o quelli di generazioni scomparse, lassù nelle Blue Ridge Mountain, che invocano una presenza/assenza, e si innestano su chitarre acustiche, percussioni ossessive, paurose dilatazioni psichedeliche, finanche la spensieratezza di un coro dei Beach Boys.
È un disco stregato. A metterlo su fa quasi paura. Ma è un disco vero.

Wednesday, November 19, 2008

One hit wonder

Non è solo il fatto di aver avuto un solo brano di successo in tutta la propria carriera. È il tipo di successo che quel brano fu, a rendere speciale la storia di Jody Reynolds, dimenticato eroe dell’era rockabilly, scomparso qualche giorno fa a 75 anni di età.
Di personaggi che in quegli anni (formidabili, ma per davvero), i '50, spuntavano dal nulla, pubblicavano un 45 giri, ne vendevano uno o due milioni di copie e poi sparivano dalle scene ce ne sono stati tanti, ad esempio Terry Clement and the Tune Tones con la sua She’s My Baby Doll che cantava, oltraggioso e pieno di humour “La ragazza ricca ha un profumo costoso, la ragazza povera fa lo stesso, la mia ragazza non ne ha nessuno, ma la puoi odorare lo stesso”. Oppure Billy Lee Riley che con i suoi marziani (The Green Men) registrò uno dei singoli più assurdi e bizzarri mai sentiti, Flying Saucers Rock’n’Roll, gli oggetti volanti del r'n'r.
“Il rockabilly fu una musica davvero speciale” scrive Greil Marcus “il solo stile del primo rock’n’roll che provò che i ragazzi bianchi potevano fare tutto: potevano essere strani, eccitanti, spaventosi e liberi come gli uomini di colore che improvvisamente stavano camminando per le onde delle radio d’America”.

Jody Reynolds era un tipo tutto a modo suo. Un giorno, nel 1956, ascoltò Elvis cantare Heartbreak Hotel. Rimase così impressionato che la ascoltò per cinque volte consecutive. Non si era mai sentito un pezzo rockabilly che invece di essere una lussuriosa carica di ritmo, era invece una tristissima nenia che sembrava suggerire un significato solo: morte.
Si mise a scrivere un pezzo: gli uscì fuori Endless Sleep, una storia ancora più oscura e misteriosa, quella di un ragazzo che va in cerca della sua fidanzata dopo che i due hanno litigato: “La notte era scura, la pioggia cadeva, cercai la mia bambina, non riuscii a trovarla, vidi le sue tracce sulla spiaggia, ebbi paura che se ne fosse andata via per sempre”.

Un brano che suggeriva l’ipotesi del suicidio non poteva essere accettato nel glamorous anni 50, e molte etichette infatti la rifiutarono. Sarà solo una coincidenza, ma a dimostrarsi interessata a pubblicarla fu una etichetta di Los Angeles che si chiamava Demon, il demonio. Ma anche loro chiesero a Reynolds di cambiare il finale e metterci un lieto fine, del tipo che vedeva la ragazza tra le onde e l’aiutava a uscirne. Jody non ne fu contento, ma il brano, nel 1958, volò al primo posto delle classifiche vendendo oltre un milione di copie. Negli anni, l'avrebbero incisa decine di altri musicisti.
Fu il suo unico successo, ma in breve Endless Sleep divenne l’apripista di un nuovo modo di scrivere le canzoni, le cosiddette “teen tragedy”, brani dove si parlava di incidenti, suicidi, morti fra fidanzati. Ad esempio Teen Angel di Ray Peterson, Tell Laura I Love Her, Ebony Eyes degli Everly Brothers e naturalmente Leader of the Pack delle Shangri-Las. E, incredibilmente, diventavano tutte dei successoni. Evidentemente, toccavano un angolo misterioso del cuore degli ascoltatori. Chi dice che la musica rock è fuga dalla realtà, si prenda un appunto: queste canzoni che avevano a tema situazioni strazianti erano comprate da milioni di ragazzi. Perché è questo che la gente vuole, sentirsi raccontare la propria vita, scontrarsi con la realtà. Bob Dylan lo aveva capito. In Chronicles cita Endless Sleep come una canzone, seppur rockabilly, autenticamente folk nei contenuti, e le canzoni folk cantavano della realtà: "C'era sempre un qualche tipo di canzone folk che spuntava fuori. Endless Sleep, la canzone di Jody Reynolds che era stata popolare anni prima, nel suo contenuto era una canzone folk".
Anche se le canzoni rock avrebbero perso presto questo carisma. Ma è un'altra storia.

Jody continuò a fare dischi per diversi anni, poi aprì un negozio di dischi e strumenti musicali a Palm Springs, California. Fra i suoi clienti anche Elvis, che usò una sua chitarra per il leggendario come back show del Natale 1968. Ogni tanto, in questi decenni, si è esibito nel circuito delle vecchie glorie. Cantando quel suo unico, grande successo. Che parlava di una ragazza morta.

Monday, November 17, 2008

Light of Day Europe Benefit and other assorted news

È almeno un paio d’anni che passano da Roma, e vabbé che Roma è probabilmente la più bella città d’Italia e una di quelle dove si mangia meglio (particolare a cui i rocker nord americani non sono assolutamente insensibili) era però l’ora che questa bella iniziativa approdasse anche al nord. Il 3 dicembre la serata di beneficenza Light Of Day, una istituzione nel New Jersey a cui quasi sempre partecipa Bruce Springsteen, esordisce a Como, al Music Sound. Sul palco Joe D’Urso, l’ottimo Willie Nile, i bravi Marah, ma soprattutto finalmente potrò vedere in azione il mio songwriter preferito degli ultimi anni, Jesse Malin. Tutto rigorosamente acustico.

E visto che siamo in tema di news che sfiorano il Boss, è annunciato per il 27 gennaio il nuovo disco Workin’ on a Dream. La canzone non mi esalta per niente, si può ascoltare su youtube sia in versione acustica durante i comizi pro Obama dello scorso ottobre, che in quella elettrica durante una partita della NFL (http://it.youtube.com/watch?v=BIO_uEX6DAk). Dodici pezzi registrati durante le pause del recente tour mondiale, ancora con Brendan O’Brien alla produzione, qualche titolo imbarazzante come Queen of the Supermarket e due bonus, le già conosciute The Wrestler e A Night with the Jersey Devil. Naturalmente, con la E Street. Si parla anche di un tour europeo a marzo.
Diamo un contentino anche ai dylaniani: tre date del nonno Bob già confermate ad aprile 09, tra cui Milano e Roma.

Sunday, November 16, 2008

Ieri sera

Ieri sera sono andato a vedere i Fleet Foxes in concerto. Il disco mi aveva colpito, ma fino a un certo punto. Dal vivo sono bravi, maledettamente bravi, e il loro concerto è un piccolo avvenimento, in un'epoca musicale dove ciò accade sempre di meno. Certo, non sono originali, il loro modo di usare le armonie vocali pesca in egual misura da Beach Boys, Simon & Garfunkel e classica tradizione folk anglo-americana, ma lo sanno fare benissimo (non è facile cantare così dal vivo) aggiungendoci una dose di sacrale solennità che li fa sembrare quasi un coro gregoriano coi capelli da hippie e le chitarre acustiche.
Peccato il tutto si sia tenuto nel cesso della musica milanese, i Magazzini Generali, un lungo capannone dove la gente è costretta ad ammassarsi tutta di fronte al palco senza visuale laterale; bastano 200 persone per costringerti a stare in fondissimo, lontanissmo, e comunque, ovunque ti trovi, a vedere un cazzo e sentire malissimo. Il giorno in cui a questa toilette sarà impedito di tenere concerti non sarà mai troppo vicino. Ovviamente il concerto non ho potuto goderlo come avrebbe meritato, ma i Fleet Foxes sono la novità migliore della scena americana dai tempi degli esordi dei Wilco.

Ieri sera, prima di andare a sentire i Fleet Foxes, ho sentito a un tg Massimo Cacciari, sindaco di Venezia. Lo ammiro moltissimo, è uno a cui darei "chiavi in mano" il governo d'Italia in qualunque momento. Persona colta, aperta, non idelogica, un gran bel tipo. Ma è un uomo anche lui, e come tutti dice a volte la sua bella cazzata. Come ieri sera che diceva che il caso di Eluana Englaro è un caso di accanimento terapeutico. No sindaco, non è un caso di accanimento terapeutico perché Eluana non è attaccata a macchinari per vivere. Lei è viva, di suo. Si sveglia ogni mattina, vvie la sua giornata e si addormenta. Un mese fa circa ha avuto, a sorpresa delle mestruazioni perdendo molto sangue. I medici non sapevano spiegarlo se non con un modo da parte di Eluana di far capire che lei è viva.
Eluana, come molti anziani e i bambini piccoli, ha solo bisogno di essere aiutata a nutrirsi e questo, sindaco Cacciari, non si chiama accanimento terapeutico, si informi. La finisca di guardare le foto di quando Eluana aveva 18 anni che mostrano i tg tuti i giorni e vada a vedere come è Eluana oggi. Guardi la realtà. Una donna viva, seppur non nel modo in cui io e lei lo siamo. Cosa passi nel suo cervello nessuno lo sa, ma se la scienza si è dichiarata incapace di dirlo (come sempre nel caso della scienza) non è un buon motivo perché dei giudici prendano il posto di scienza, parlamento e si diano deliri di onnipotenza legiferando al posto del governo:"Se leggiamo le motivazioni della sentenza, poi, sono aberranti, in quanto sostengono che la dignità di una persona sta nell'essere sano. La dignità, insomma, decisa per legge. Che acqua e cibo non siano cure lo capirebbe anche il più disgraziato dei laicisti. In base a quella sentenza, poi, di fatto si autorizza il suicidio di chiunque non possa o non voglia nutrirsi autonomamente", dal sito http://berlicche.splinder.com/).

E ancora, da un commento nello stesso sito, perché questa non è una battaglia fra cattolici e non credenti come vogliono farci credere: "Io non ce l'ho un dio da pregare ma sono d'accordo con ogni parola di questo post. Mi fa paura una sentenza così e mi fanno paura tutti quelli che la festeggiano".

http://www.medicinaepersona.org/cm/notizia.jhtml?param1_1=N11d9cc899a97d6160f6

Wednesday, November 12, 2008

Novembre

Qui, proprio dentro di me, ho trovato un luogo incantato, solo perché si è lasciato trovare
(Patti Smith)












Lascia che lo spirito del defunto si allontani e continua la tua celebrazione della vita
(Allen Ginsberg)

Tuesday, November 11, 2008

This is the story of Glen Sherley

There are men here that don't ever worship
There are men here who scoff at the ones who pray
But I've got down on my knees in that greystone chapel
And I thank the Lord for helpin' me each day
Now there's greystone chapel here at Folsom
It has a touch of God's hand on ever stone
It's a flower of light in a field of darkness and it's givin' me the strenght to carry on
Inside the walls of prison my body may be but my Lord has set my soul free

(Greystone Chapel, Glen Sherley)

L'altra sera ho messo su distrattamente, per dovere di recensione, il dvd allegato alla nuova edizione di Folsom Prison Blues, il live di Johnny Cash registrato nel 1968 nella prigione di Folsom, uno dei grandi dischi della storia del rock. La nuova edizione ha un cd in più con il secondo concerto - inedito - e un dvd. Ok, figo, ma già sapevo che di quella leggendaria esibizione non esistevano filmati. Così comincio a vedere il dvd, la storia dei fatti, interviste, una - ennesima - storia di Cash... a un certo punto mi sono anche addormentato.

Mi sono risvegliato chissà perché quando si cominciava a parlare di Glen Sherley. Ricordavo vagamente che quella volta Cash eseguì una canzone scritta da un detenuto. Da quel momento non ho più potuto staccare gli occhi dal televisore, per seguire la drammatica storia di Glen Sherley, un detenuto per motivi poco chiari ("rapina a mano armata" dirà lui a un certo punto) che fece avere al cappellano di Folsom una sua composizione da dare a Cash. Questi, ascoltatala, la imparò la sera prima, colpito dalla sua bellezza; verso la fine del concerto, l'uomo in nero si avvicina al microfono: "Questa è la tua canzone, Glen" e attacca la sua Greystone Chapel. Sherley, all'oscuro, fa un balzo in piedi; Cash gli porge la mano, i due si incontrano e idealmente comincia una amicizia che avrà conseguenze profonde. La canzone è comunque un brano di un realismo terrificante: scritta da un prigioniero in uno dei peggiori carceri americani, è una preghiera di un uomo che solo nei mattoni grigi della cappella penitenziaria riesce a vedere uno straccio di salvezza.

Tre anni dopo,ancora in prigione, Sherley ha un altro suo brano portato al successo da un'altra country star, Eddie Arnold, con Portrait of a Woman. Cash, che nel frattempo è diventato un paladino della lotta per la riforma delle prigioni americane, lo ha preso a cuore, riconosce il suo talento e lo aiuta a registrare un intero disco, dal vivo, in prigione. Riesce anche a farlo uscire di galera, nel 1971: formidabili le immagini, nel dvd, di Cash che lo aspetta fuori di prigione.

La storia viene poi raccontata dai figli di Sherley, con immagini di concerti di un uomo che sembra aver ritrovato la redenzione. Partecipa a diversi tour con Cash, è un uomo nuovo. Ma il music business si rivela troppo duro per uno che in prigione ha visto chissà quale inferno. Il demonio torna a bussare alla sua porta, riesplode il suo lato violento, la droga è l'unico modo per lenire l'angoscia che lo assedia e si allontana da tutti, anche i figli lo sfuggono. Sparisce, nel mistero. L'11 maggio 1978 la figlia riceve una telefonata. "Mio padre è morto, vero?" dice lei. "Sì, si è ucciso".
Nel dvd si vede la donna, per ironia della sorte oggi poliziotto, aprire per la prima volta il certificato di morte del padre "Morto per colpo di pistola alla testa". Aveva solo 42 anni, ma già nelle immagini di dieci anni prima con Johnny Cash a Folsom, nel 1968, sembra un uomo molto più vecchio. Negli ultimi tempi per vivere dava da mangiare alle vacche, dicono che ne nutriva anche diecimila al giorno. Ma quel demonio che aveva segnato la sua vita lo aveva seguito da Folsom fino a là,senza lasciargli scampo.

Cash avrebbe accusato il colpo. Non avrebbe più fatto concerti nei carceri. Come dice il chitarrista Marty Stuart nel dvd a proposito dello stesso Cash, di Elvis, Jerry Lee, Carl Perkins, "questi uomini erano una sorta di predicatori mancati. Avrebbero salvato molte vite se non avessero preso la strada del rock'n'roll". O magari ne hanno salvate altre lo stesso.
Ci sono due lati per ogni storia, e questa era quella di Glen Sherley, che scrisse Greystone Chapel.

Thursday, November 06, 2008

Political Bob

I was born in 1941 the year Pearl Harbor was bombed, it has been dark ever since. I guess things are really gonna change now
(Bob Dylan durante un concerto a Minneapolis, la sera del 4 novembre 2008)

Nel gennaio 1993 Bob Dylan era fra i tanti musicisti rock invitati sulle scale del Campidoglio a esibirsi per celebrare l’elezione di Bill Clinton a presidente degli Stati Uniti. Cantò Chimes of Freedom, una canzone che significava più di mille comizi elettorali a proposito di appartenenza politica a uno schieramento piuttosto che a un altro.
Due sere fa, a Minneapolis, durante un concerto, saputa la notizia della ormai certa vittoria di Obama, il musicista ha rilasciato dal palco la dichiarazione che leggete là sopra, “credo che le cose adesso cambieranno davvero”. In scaletta, brani dal significato palese come The Times They Are A-Changin’ e Masters of War.

La gente si è sempre lamentata che Bob Dylan, a differenza di uno Springsteen, non prenda posizioni politiche, non scriva più canzoni politiche (a parte che con quelle che ha scritto 40anni fa, non ha certo bisogno di farne di nuove) e queste sue dichiarazioni o partecipazioni a eventi politici dovrebbero fare piazza pulita su certe lamentele. Sì, Bob Dylan vota e sostiene il Partito democratico americano. Questo non vuol dire che fa un uso strumentale del suo essere artista per convincere i suoi fan a votare questo o quel partito. Arte e politica non ci azzeccano nulla.

C’è una dimensione etica, invece, nella politica, che oggi non esiste più e che Dylan non perde occasione di ricordarci. Perché nella frase del concerto di Minneapolis, ci sono dentro valutazioni profondissime ed enormi, come sempre quando Bob Dylan apre bocca anche per dire solo due parole. Ad esempio, che nell’“oscurità” in cui siamo vissuti dai tempi di Pearl Harbor ci sono dentro anche quegli anni che secondo la maggior parte delle persone avrebbero cambiato il mondo in meglio, gli anni 60. Al momento vale la pena fare una sola valutazione, che credo sia quella che più stia a cuore a Dylan stesso, e cioè che la lunga marcia per i diritti civili dei neri americani, cominciata con la marcia di Washington nel 1963 (e Dylan c’era, era sul palco a cantare) si è finalmente conclusa con l’elezione di un nero a presidente degli Stai Uniti.
E perciò, anche se adesso tutti saltano sul carrozzone di Obama con le motivazioni più incredibili e che di fatto non centrano nulla con un modo di intendere la politica che è diverso milioni di anni luce ad esempio da quello italiano, siamo contenti della sua vittoria. Buon lavoro, Mr President.

Tuesday, November 04, 2008

Top Ten Interviews

Be' visto che con l'intervista a Paul McCartney posso ormai dirigermi spedito verso il pre pensionamento, mi sono messo a pensare a quelle passate, agli incontri che ho potuto fare grazie a questo lavoro, a immaginarmi una top ten alla Nick Hornby (anche se le sue sono top 5) di quasi vent'anni di interviste. Non tanto per le clamorose confessioni o chissà quali dichiarazioni (pensate che un giornalista di Rolling Stone - quello americano - quando fa una intervista, passa un mese on the road con il musicista in questione o fa delle session di tre ore per volta per diverse settimane. Che possiamo farci noi con i "15 minuti 15" a disposizione con un McCartney?) ma per aver avuto la possibilità di avvicinarmi, toccare con mano, o sentire la voce al telefono con ogni volta un pezzetto diverso della storia del rock. E anche in quel poco di tempo, scoprire certi lati, certe sfumature di personaggi che altrimenti non avrei mai scoperto. E allora...

1. Paul McCartney, ovviamente, per i motivi detti nei giorni scorsi. Insomma, quando mi ha chiamato al telefono e si è messo a dirmi "Hey Paolo where are you" al solo sentire "quella" voce mi sfilavano davanti la copertina di Sgt Pepper, il concerto allo Shea Stadium, John e Paul ad Amburgo... E io, totalmente stordito "Sono in ufficio" e lui "No, in che città". Ah "Milano, Italy...". Geeez. Il carisma di un uomo così,comunque, è uscito tutto fuori in quei pochi minuti di telefonata: autorevolezza, coscienza del proprio ruolo nella storia, ma anche incapacità a contenere la propria umana simpatia, come quando si è messo a improvvisare una canzone al telefono... O alla fine come quando in una scnea di Help! mi ha salutato con: "Fireman rules!".

2. Scotty Moore. Al telefono nel 1997. Mi maledico per non aver conservato il nastro dell'intervista. L'uomo che era con Elvis in quello studio di Memphis quel pomeriggio del 1954 in cui veniva registrata That's All Right, Mama, quel giorno che nacque il rock'n'roll... Una persona squisita, un vero gentleman del vecchio Sud, lo ricordo così: alla mia domanda che ricordo gli rimanesse di Elvis, mi commosse con un "he is still my little brother".

3. Patti Smith,ancora una telefonica, nel 2004, bella lunga quasi un'ora. Lei è intensa con le risposte allo stesso modo in cui declama le sue poesie, materna con un povero fan come il sottoscritto che quando le dice che per tutti quegli anni in cui era stata via dalle scene ci era mancata tanto, risponde: "Non me ne sono mai andata, non sono mai stata via, ero sempre con voi. Quando cambiavo i pannolini ai miei figli, pensavo a voi". Quasi ti metteresti a piangere.

4. Joe Strummer, un anno circa prima che morisse, intervistato di persona qua a Milano. Non ho molto da dire se non che sono grato di aver condiviso un'ora della sua vita prima che fosse troppo tardi. Mi manchi,Joe.
5. Robbie Robertson. Di persona, nel 1997. Di questo incontro mi maledico per non essermi fatto fare una foto insieme, e dire che con me c'era un fotografo. Imbecille che sono. Gran personaggio, se la tirava un po' troppo in verità, lasciando cadere tutto dall'alto e con quell'abbronzatura esagerata da lampadato del tipo "hey, io arrivo da Hollywood, mica da Niguarda", ma d'altro canto lui era sul palco nel momento più importante dell'intera storia del rock, quella sera a Manchester nel 1966 quando Bob Dylan chiese a lui e agli altri di suonare "fuckin' loud".

6. Gregg Allman, al telefono credo fosse nel 2001 o 2002. Un'altra leggenda della golden age del rock'n'roll, simbolo di tutti gli eccessi e di tutta la grande musica dei 70s, cocainomane incallito che per sfuggire la galera non esitò a tradire i suoi migliori amici. Quando lo intervisto io, è un pacioso sessantenne che non beve e non fuma manco più, ma è un torrente di parole in esilarante accento dixie che ogni due secondi ti chiama "brother"...

7. Beth Orton. Non è un pezzo di storia del rock, ma io sono innamorato di lei. E tanto basta. Di persona, nel 2002, nella sua camera d'albergo a Verona, la città degli amanti...

8. Joe Boyd. Non è un musicista, ma se ne ha fatte di robe... compreso produrre il primo 45 giri dei Pink Floyd e soprattutto produrre Nick Drake (era anche a Newport 65, quel giorno che Dylan attaccò la spina alla chitarra...). Lo apprezzo ancor di più quando taglia corto: "Una bella canzone deve costringermi a chiudere il televisore, mettere via il giornale che sto leggendo, non fare più nulla e ascoltare solo quella. Non mi succede più da vent'anni".

9. Bob Neuwirth, 2002. Questa è quasi una intervista stile Rolling Stone, durata mesi: in macchina, mentre lo portavo a un concerto in Svizzera; al telefono da Los Angeles; nel camerino di uno squallido piccolo club milanese. Chi è? Be', il fratello di sangue di Bob Dylan negli anni 60, l'amante di Janis Joplin, quello che doveva aiutare Jim Morrison a smettere di bere ma si ubriacava più di lui eccetera eccetera. "Chi cazzo sei, un agente del Kgb? Smettila di fare domande": come si fa a non volergli bene.
10. A pari merito: David Crosby (che anche se ha ufficialmente smesso di drogarsi, da come parla deve avere in corpo ancora droga sufficiente per il resto della vita), Roger McGuinn (gelido e inattaccabile, mamma mia, se non avesse inciso uno dei 45 giri più belli di tutti i tempi lo manderesti un po' a cagare...), James Taylor (timido e gentilissimo: solo dopo mezz'ora che parliamo la smette di chiamarmi "Sir": a me? please sweet baby James...), Donovan (che 40 anni dopo è ancora convinto che siamo negli anni 60 e sta ancora cercando di far lievitare il Pentagono), per tutto quello che hanno fatto per la storia di questa musica. E per me.

Thanx for the music, everybody.

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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