Friday, October 30, 2009

Pathway to the stars (episode # 1)

(In cui si narrano tutti i concerti di His Bobness visti da colui che smaneggia questo blog, saltellando di qua e là negli anni, senza alcun filo logico, senso compiuto e soprattutto alcuna capacità critica)

Montreux, Svizzera, Casino de Montreux

9 luglio 1990

Oziosa calda estate sulla riviera. Che altro di meglio da fare se non prendere la quattro ruote e puntare a nord, oltre confine, specie se Bob Dylan quest'anno in Italia non ci verrà. Niente di meglio, se non che per qualche oscuro motivo la quattro ruote si decide di lasciarla a Milano e di proseguire in treno. Il motivo sfugge tutt'oggi: beata incoscienza da stupidità congenita, così come quella di non preoccuparsi di sapere quando ci sarà il primo treno per tornare a indietro ("ci sarà ci sarà" - "non non ce ne è manco uno fino a domani mattina") né preoccuparsi di aver cercato una locanda per dormire. Tantè. Ehi, questa è Montreux, si sente ancora il puzzo di smoke on the water. Bob Dylan in una piccola location, al casinò. Wow.

Dentro, tra i primi, ordinata fila svizzera. Dentro, un bel migliaio di persone. Dentro, un caldo porco. Prima, seduti uno sull'altro con le ginocchia in gola per quasi due ore: Ry Cooder, David Lindley e Flaco Jimemez. Che è un figo, l'ultimo dei tre, insopportabilmente noiosi gli altri due a fare il ripasso di come si suona bene la chitarra in tutte le sue declinazioni. Roba da università della musica, ma qua vogliamo tutti rock'n'roll, quella musica che come dice Lou Reed, "un accordo va bene, con due accordi stai già esagerando. Tre accordi, e stai suonando del jazz". Appunto. E noi vogliamo solo rock'n'roll. Che arriva, piove abbondante, attenua il caldo porco qua dentro non appena un pazzo in camicia bianca, gilet di pelle e colbacco dell'Armata Rossa di pelo si presenta sul palco. Sì, solo Bob Dylan può suonare per oltre due ore in questo caldo porco sotto a dei riflettori con un colbacco di pelle. Dell'Armata Rossa, comprato a Berlino due giorni prima davanti ai ruderi del Muro. Absolutely Sweet Marie 'spacca', e mi spacca ancora oggi che 19 anni dopo non glie l'ho mai pù sentita fare dal vivo. Ride, sorride, saltella e strimpella con foga la sua chitarra, mentre GE Smith, il biondo crinuto chitarrista alle ultime tappe del suo never ending tour, fa lo snob: suonicchia, si siede su di un amplificatore, fa capire che per lui la strada è agli sgoccioli. Mica sempre però, che durante Masters of War esplode riff come bombe al napalm. Il sound è approssimativo e sgangherato come vuole la visione che Dylan appicca al NET durante il 1990, un anno di transizione, di perduta concentrazione, anche di noia, ma di serate illuminanti - random - come questa. La voce gracchiante da Donald Duck del rock che segue itinerari tutti suoi, quasi sul palco intorno a lui non ci fosse nessuno ad accompagnarlo. Per non parlare dell'incredibile varietà della set list: praticamente ogni era dylaniana viene rappresentata, compresa quella "born again"(Gotta Serve Somebody, un treno sferragliante quella sera).

"You already heard this one before... But is soooo good we are going to play it once again". Io, addormentato, non mi ero manco accorto che Cooder e Lindley avessero già eseguito Across the Borderline. Chissefrega: Dylan invita sul palco Flaco e la sua fisarmonica e il caldo porco ora ha un senso, perché le note della immortale ballata portano lontano dalla Svizzera, lì sul border, tra Texas e Messico. Caldo, ma magia pura. All'inizio del concerto ero sulla destra del palco quasi sulle transenne: per quando finisce mi trovo dalla parte opposta trascinato da questo mare che è la folla in trance. Al mio amico quasi sequestrano la macchina fotografica, io devo sfuggire quasi dandogli un cazzotto un gay che mi fa delle avanche strusciandomi le mani addosso da più di mezz'ora. Can't help it if I'm lucky: non ci torno più a Montreux. C'è ancora tempo per una I Believe in You che, giurerei, Bob Dylan canta fra le lacrime, una Watchtower che rimanda Jimi Hendrix a casa (o all'inferno, non so) per sempre e un ennesimo bis rotolando sulla Highway 61. Questi erano i tempi d'oro del NET, dove ogni cosa poteva accadere.

Un'altra Across the Borderline, ma anche questa is soooo good...

Noi, una decina di birre dopo, aspettiamo l'alba seduti al freddo di una panchina della stazione in attesa del primo treno per Milano. Fa molto rock'n'roll. Ma anche no. Non mi muovo più se con il biglietto non c'è anche la prenotazione per un albergo.

Set list: Absolutely Sweet Marie, Ballad Of A Thin Man, Memphis Blues Again, I'll Remember You, Masters Of War, Gotta Serve Somebody, It's Alright Ma (I'm Only Bleeding), Don't Think Twice, Gates Of Eden, Mr. Tambourine Man, It Ain't Me Babe, Across The Borderline, Everything Is Broken, I Believe In You, All Along The Watchtower, I Shall Be Released, Like A Rolling Stone, Blowin' In The Wind, Highway 61 Revisited

Anno di grazia del Never Ending Tour: terzo.

Band: Tony Garnier (basso); Christopher Parker (batteria); GE Smith (chitarra).

Disponibilità: www.dylansconcerts.com/1990-07-09.htm

Vites rating: **** su *****

Wednesday, October 28, 2009

La leggenda di Duluoz

"Quell'inevitabile dolorosa profondità che trapela luminosa"
(Jack Kerouac, sul genio della scrittura, 1962)

Si era alzato alle quattro del mattino e aveva parlato con la madre fino all'alba. Poi era andato a sedersi davanti al televisore con una scatola aperta di tonno, il suo rimedio contro la sbornia da whisky. Aveva con sé anche il suo taccuino per appunti, come sempre. Improvvisamente si era alzato per correre in bagno a vomitare. Il fegato aveva ceduto, aveva un'emorragia nelle arterie della gola e del torace. Un intervento chirurgico di emergenza non potè nulla: nella notte del 21 ottobre 1969 muore Jack Kerouac, soffocato dal proprio sangue.Succede 40 anni fa, di anni ne aveva solo 47 e chissà quanto avrebbe potuto ancora fare Kerouac se fosse riuscito a sfuggire al demone della bottiglia. Ma non poteva. Aveva sempre cercato la morte, incapace di trovare incarnazione al suo disperato bisogno di felicità nella realtà che aveva vissuto. E' impossibile immaginare la musica rock senza Jack Kerouac. Il flusso di scrittura spontanea, gli eccessi, i santi e i peccatori, gli angeli della desolazione, i vagabondi della strada, l'America come possibilità infinita, quella "tristessa" che lui seppe incarnare sono alla base delle migliori canzoni rock e ancora ne costituiscono l'essenza.
"Prima soddisfa te stesso, e poi al lettore non mancherà lo choc telepatico e la corrispondenza significante perché nella tua e nella sua mente operano le stesse leggi psicologiche".

Monday, October 19, 2009

Why we listen

"La presenza della tua assenza" intitolava un suo articolo l'inventore del giornalismo rock, Paul Williams. "Perché ascoltiamo musica?" si chiedeva. "La solitudine è una verità universale. La musica, in tutte le sue accezioni, è uno dei tentativi dell'uomo di riempire questa assenza. E' la ricerca di qualcosa. Deliberatamente, intelligentemente, con passione e molte volte inconsciamente".

Da qualche parte su Internet ho trovato la bella e divertente recensione di un recente concerto di Bob Dylan chetrovate più sotto. L'ha scritta non so chi, una ragazzina americana andata da sola a vedere il grande bardo, probabilmente per la prima volta, da sola e con il cuore spezzato per una storia d'amore finita male. In fila per entrare nella sala, da sola in mezzo a sconosciuti tutti più vecchi di lei, piangeva. Dentro, non si è più sentita sola. "Quando ha suonato Highway 61 era come essere in chiesa". Questa recensione dice tutto quello che si può dire del perché ascoltiamo musica, perché andiamo ancora a vedere vecchi cantanti quasi senza voce, perché siamo fortunati che questi vecchi siano ancora in giro. Perché una ragazzina di vent'anni invece di fondersi il cervello con X Factor se ne va da sola, piangendo, a fare la fila per vedere Bob Dylan. Non troverete recensioni come queste sulle riviste musicali patinate. Là ci sono (ci siamo) i bioriosi critici soloni che vi spiegano perché Bob Dylan era meglio nel '66 o nel '75. Ma che non sanno dirvi perché abbiamo biosgno di ascoltare musica. Perchè ascoltiamo Dylan, gli Smiths, i Beach Boys e i Wilco.
L'ho lasciata in inglese perché non aveva senso tradurla: tradurre Bob fucking Dylan suonerebbe un insulto. Invece è una dichiarazione d'amore.

Grazie chiunque tu sia, Lindsay
(http://elohbee.tumblr.com/)

This is the shirt I bought. I’ve been trying to type how I feel about tonight like sixty different ways. I could tell you that he sounds fucking great, and he’s so handsome, and he dances A LOT, and that he still does that quick little awkward half smile that he does in all of those videos you’ve seen of him when he was young. I could tell you that actually listening to him play harmonica in real life is fucking surreal, and that his lead guitarist is a fucking WARLOCK, and that the whole band is really fucking great in general.

I could tell you that he opened with Leopard Skin Pillbox Hat, and that he played Don’t Think Twice, It’s Alright, and Ballad of a Thin Man, and that when he played Highway 61 Revisited it felt like church, and that the first chords of Like A Rolling Stone have left me irreversibly changed. I could tell you that I was the youngest person there by a long shot, in a packed venue, surrounded by people from every corner of the world who have loved him for forty years, who call themselves “followers”, who took care of me when some drunk fucking asshole was breathing down the back of my neck and brushing up against my ass and when he spilled two drinks all over my bare legs and didn’t apologize.

I could tell you about Carol, who went to every stop on the European leg of this tour, who has seen him sixty times, who was standing right in front of him and was dancing and screaming like a teenager. I could tell you about how I cried the minute he walked on the stage. I was twenty feet away from Bob Dylan, Robert Allen Zimmerman, do you even fucking understand how fucking cool that is I don’t really it hasn’t really hit me yet but when it does I’ll probably have a fucking heart attack Bob fucking Dylan. I could tell you that I had my heart indelibly shattered a year and half ago, and that sometimes it feels like it hasn’t gotten any better. I spend so many days feeling sorry for myself. I cried waiting in the line tonight, because I went to this concert completely alone, as I do so many things these days. I felt very small. I thought of so many people I wanted to be with tonight.

All I do is think about how I wish everyone was here, with me everyday, so I don’t feel so alone all the time. I have completely forgotten how to be happy that I’M here, and that I’m not alone at all. I went to a Bob Dylan concert tonight. That’s a pretty big fucking moment in my life, you know? I went to a Bob Dylan concert with a thousand other people who love him just as much as I do. And maybe they also love people who have stopped loving them back, and that is just the loneliest feeling in the world. But we’ve all felt it, right? Bob Dylan felt it, too. He’s written songs about it. Joan Baez fucking felt it, am I right? And maybe when you’ve had your heart broken, and you’re pretty fucking sure it’s broken beyond repair, you sit in your room and put on your sad Bob Dylan records, or your sad Smiths records, or your sad Beach Boys records, or your sad Wilco records, and you really feel like it’s you, and your music, against the world. What else, besides music, does that? It has a way, like nothing else, of letting you know that you’re not even remotely alone, and even though you might be a little pathetic at the moment, that horrible, throbbing pain you’re feeling deep inside your very core isn’t mutant. It’s universal.

Heaven knows Morrissey is miserable now too, man. Ryan Adams got royally screwed over by this broad who fucked all of his friends and then stole all of his records just like you, dude. That’s why we listen to music in our darkest hours, because we’re able to say, “YES! That is EXACTLY right. That is EXACTLY how I’m feeling right now.” That’s music. I love music. I love it more than anything or anyone in the world. And it loves me back, I think. I figured all of this out standing in a room with Bob Dylan. Isn’t that crazy? So, that pretty much sums up how I feel about going to the Bob Dylan concert tonight. That’s a cool shirt, huh?

Friday, October 16, 2009

Da Big Sur a Guadalupe

Quella scogliera che si intravvede nella foto qua sopra ce l'ho appesa proprio sopra il computer da cui sto scrivendo in questo momento. Ce l'ho incorniciata in un quadro da quando tornai dagli Stati Uniti, nell'ottobre del 1991. La scattai nella zona di Big Sur, a sud di San Francisco, in una fredda e ventosa giornata. Sapevo di essere nella zona celebrata da Jack Kerouac nel suo splendido omonimo romanzo, ma solo la mia fantasia, quando mi affacciai dalla strada la sopra dopo aver osservato decine di altre spiagge simili, mi fece dire: questa deve essere la spiaggia su cui si recava di notte Kerouac a sbronzarsi e a prendere ispirazione per la magnifica ode a Big Sur che conludeva il libro. Me lo sentivo dentro, senza averne alcuna certezza. Probabilmente, 40 anni dopo, avvertivo ancora le vibrazioni dell'uomo solo di fronte all'immensità dell'oceano. A sinistra della statale, in direzione delle montagne là dietro, ricordo partiva una stradina sterrata e guardandola pensavo, quella deve proprio essere la direzione che Jack prese quel giorno, zaino in spalla, per dirigersi al rifugio che gli aveva prestato il suo amico per fare meditazione e ovviamente ubriacarsi.
Diciotto anni dopo ritrovo la mia identica fotografia in questa pubblicità che avvisa dell'uscita di un bellissimo disco (che ho potuto ascoltare grazie al consiglio dell'amico Raffaele) inciso da Jay Farrar (ancora lui... questa è il nostro autunno, amico triste...) insieme al cantante dei Death Cab for Cutie, Ben Gibbard, come commento a un documentario su Kerouac e su Big Sur intitolato One Fast Move or I'm Gone: Kerouac's Big Sur. La foto scelta per il progetto conferma le mie intuizioni di 18 anni fa: quella era la spiaggia di Jack. Quello era il suo mare. E per mezz'ora ho respirato la stessa violenta brezza dell'oceano Pacifico che respirò lui. Meglio di una intervista con Bob Dylan. Prima di morire, tornerò a Big Sur e cercherò di nuovo quella spiaggia. Allora la mia corsa sarà davvero finita.

O potrebbe finire a sud di quella stessa California. In quella Guadalupe dei misteri di cui canta, in un altro, bellissimo disco nuovo, il grande Tom Russell, forse l'ultima voce poetica della canzone d'autore americana. Sangue e fume di candela (Blood and Candle Smoke) contiene fra le altre splendide composizioni un pezzo che si chiama Guadalupe, dedicato alla cittadina messicana dove apparve a un contadino indio Maria. E' la Madonna più amata e invocata dei messicani, ce l'hanno anche dipinta sulla grancassa della loro batteria i Los Lobos. "Chi sono io per dubitare di questi misteri?" si chiede Russell. "Sono l'ultimo dei tuoi figli ma sono quello che ha più bisogno di speranza. Lei apparve a Juan Diego, lei lasciò la sua immagine sul suo mantello, 500 anni di dolore non possono distruggere la fede più profonda". Proprio così: non c'è dolore che possa toglierci questa speranza. Lasciateci almeno accendere ancora una candela. "Eccomi qua stanotte, il tuo miscredente straccione. Il vecchio Thomas pieno di dubbi e ridotto in lacrime che guarda la tua chiesa annegare nella terra come un cuore ferito dalla paura".
Il cuore. Ferito. Lasciamo sanguinare le ferite del cuore che nessuno può guarire: è da lì che passa la luce.
Vecchio Thomas miscredente come lo sono io, come lo siamo tutti, in questa notte di vento freddo d'autunno. Che guardiamo a Big Sur e a Guadalupe perché non ci restano altri luoghi a cui guardare.
Tom Russell, l'uomo che scrisse dei misteri dell'angelo di Lione. L'uomo che canta adesso il mistero di Guadalupe.

Tuesday, October 13, 2009

Cose belle

Il disco di Jon Allen, Dead Mans Suit. Il ragazzo è inglese, ha una voce calda e fumosa che sembra il giovane Rod Stewart e fa un disco americano al 100%. Tra The Band, il giovane Stephen Stills (quello tutto acustico), un po' di Bob Dylan ovviamente e dosi massicce di negritudine in un paio di pezzi da urlo, grondanti note grasse di Hammond. Ha senso della melodia purissimo, non annoia mai, se fosse stato in giro negli anni 70 con un disco come questo saremmo qui a ricordare la ristampa deluxe di uno dei più bei esempi di songwriting di quella stagione. Invece il disco è nuovo nuovo e lui è bravo bravo. Fa cose belle, Jon Allen.

Invece fanno cose un po' meno belle ma comunque simpatiche i Monsters of Folk. D'altro canto, sebbene osannati dalla intellighenzia musicale, la critica radical snob chic del rock'n'roll, Conor Oberst (Bright Eyes) e M Ward sono sempre stati due mediocri autori di canzoni. E Jim James (My Morning Jacket) una voce straordinaria, bellissima, ma anche la sua band deve ancora scrivere una canzone immortale. Si mettono a fare il supergruppo (c'è anche Mike Mogis, anche lui Bright Eyes) un po' alla CSNY 40 anni dopo e infilano un pezzo straordinario, la bellissima The Right Place, suono un po' alla Traveling Wilburys, tanta voglia di pop-rock anni 70 pure loro, e una manciata di brani dignitosi, tra folk vintage e appunto sonorità 70s. Carino, ma si salva la metà dei brani. Da scaricare, non da comprare come ho fatto io, anche se la confezione è molto cool.
Torna a fare cose belle Tom Ovans, indimenticata voce dylaniana dei primissimi anni 90, dopo alcuni dischi un po' troppo introversi e affannosi. Get On Board recupera la voglia di lasciare andare libere e orgogliose le chitarre elettriche e - novità - apre anche al soul di casa Stax, con la fiatistica Night Train. Belle canzoni, robuste, guidate da un gusto melodico raro per il songwriter oggi di casa ad Austin che continua a combattere la sua battaglia per la sopravvivenza. Sua, e della buona musica.
Le cose più belle però le sta tornando a fare Bob Dylan: dopo anni di oblio, ha capito che doveva richiamare nella sua live band uno che sapesse davvero suonare e non fare la bella statuina sul palco. Dio benedica Charlie Sexton che ha fatto tornare la voglia di cantare e suonare allo stesso Dylan. Il Dylan show adesso è di nuovo uno show da andare a vedere. E il disco di Natale è formidabile (lo avevo già detto? Cazzomene. Lo è davvero).

Thursday, October 08, 2009

Santa Claus is coming to town

Sting dice che odia il Natale. Ma lui è uno con le palle. Lui è un figo, in tutti i sensi, fisico in forma straordinaria nonostante i quasi 60 anni, lui è uno che fa sesso tantrico, sai lui riesce a fare sesso anche per sette ore consecutive. E' uno di quelli che non sbagliano mai niente nella vita, a cui va tutto bene. Fa un disco bellissimo dedicato all'inverno perché il Natale, lui lo odia. Senza canzoni di Natale ovviamente.
Noi, invece, che siamo degli sfigati, che ci vanno storte tre cose su due, che a 47 anni ne dimostriamo più di 60, che il sesso... be', era divertente, se ci ricordiamo bene, noi stiamo dalla parte del vecchio bastardo, e se disco di Natale deve essere, che sia un cazzuto disco di Natale vero e proprio. Lui, ebreo, ateo, cristiano rinato e poi morto e risorto mille volte, 70 anni alla soglia, uno che la storia del rock l'ha fatta sul serio, mica mandava messaggi in bottiglia a Roxanne, rischiando la pelle, mica facendo il sesso tantrico, uno che ha amato e odiato davvero, uno che sa che non c'è successo come il fallimento e che il fallimento non è un successo per niente. Che sa che quando hai perso tutto, hai solo da perdere ancora qualcos'altro.
Ecco perché Bob Dylan fa un bellissimo disco di Natale. E non si vergogna. Neanche di cantare in latino (dopo aver cantato in spagnolo e in italiano) durante Adeste fidelis. Magari l'ascolterà anche papa Ratzi il prossimo Natale. Lo fa come si facevano una volta i dischi di Natale, quando la musica rock era musica rock e anche il Natale era Natale. Come lo faceva Elvis con i Jordanaires dietro o come li produceva Phil Spector. E canta benissimo, Zimmerman, meglio di quanto fatto nei dischi autografi recenti.
Oddio che sballo sentire le vocine femminili di Christmas Island, sembra di essere a un Natale con i Beach Boys, e che sentimento rock'n'roll (sì, Sting dice che la musica rock è copnservatrice e di destra, ma Sting è un figo, uno che sa tutto della vita e della musca rock, ad esempio lui sa fare de du du du de da da da) con quella fisarmonica cajun in Must Be Santa. C'è anche un po' di Bing Crosby qua e là, è ovvio, ad esempio in The Christmas Song. C'è il mondo antico del Radio Hour Theme Time. C'è il Natale dei perdenti in Christmas Blues. C'è Frank Sinatra in O' Little Town of Bethlehm. C'è un sacco di buona musica, suonata benissimo con gusto jazzy e rockabilly. E il ricavato delle vendite del disco, a differenza di quello di Sting, va tutto in beneficenza a chi in America muore di fame. Ma Sting odia il Natale.
Noi no.

Monday, October 05, 2009

Vola in edicola

Di questi tempi, consigliare l'acquisto di un quotidiano non è proprio cosa bella e giusta. Ma se c'è di mezzo la musica allora vale lo sforzo. Anche perché quella che troverete allegata al Corriere della Sera a partire da domani, 6 ottobre, per le prossime 13 settimane, è musica, quella vera, quella buona, che è onesta e viene dal cuore. In tutto, quattordici dei dischi che compongono la discografia di Francesco De Gregori.
Domani si inizia con Rimmel, il miglior disco italiano degli anni 70 e ancora oggi uno dei migliori. E oltre al disco, c'è un volumetto (splendidamente elegante, non la solita ciofeca che si usa in questi casi) di ben 40 pagine dove l'autore di quel disco, Francesco De Gregori, si racconta e racconta come mai fatto prima. Ovvio, perché dall'altra parte del microfono c'ero io. E quando le domande le faccio io, le risposte arrivano.

Scherzi a parte: sono orgoglioso di quanto abbiamo prodotto io e Francesco negli ultimi mesi. E sono felice che grandi canzoni tornino a disposizione di tutti, specie dei giovani che non erano ancora nati quando Rimmel uscì,nel 1975.

“Nonostante certe parole e il ritmo un po’ da ninna nanna Fiorellino è pur sempre la canzone di un amore finito, come Rimmel del resto. E tutti gli addii sono una perdita, una sconfitta, anelli che rimangono sulla spiaggia, stagioni che finiscono. E anche in questa storia niente sembra risolto, niente viene perdonato. Mi piaceva proprio questo contrasto fra la forma e il contenuto Oggi ogni tanto trovo qualcuno che mi dice “lo sai che la usavo per addormentare mio figlio?” e penso che magari è la stessa persona che aveva storto il naso dopo averla ascoltata la prima volta perché la trovava troppo leggera. E in tutti e due i casi non aveva capito niente”.
(Dal volume allegato a Rimmel, in edicola con il Corriere della Sera martedì 6 ottobre)

Friday, October 02, 2009

Until the freeze

Oh Chris. Sì, tu Chris Robinson. E anche tu, Rich, fratello di Chris. Eh mi state un po' sulle scatole. Voi non sapete cosa è il blues. Ogni vostro disco è una esplosione di gioia e gusto per la vita. No, non siete del movimento dei depressi antagonisti come me. Che poi sono l'ultimo arrivato in quel movimento, ma questa è un'altra storia. Il fatto è che Before the Frost è un disco troppo bello. Un disco che spazza via quel gelo che stiamo aspettando. E' come un bacio, tenero e totale. Chissà se ci sarà una sola, dico una sola, rivista italiana che questo mese vi metterà in copertina. La direbbe lunga, ma qua ormai ce la diciamo corta un po' tutti. Visto poi che i Black Crowes in Italia non li porta più nessuno a suonare. Good morning captain, allora, questo disco non smetto di ascoltarlo fino a quando nevicherà. Allora comincerò ad ascoltare quello che generosamente si può scaricare grazie al vostro download gratuito. Se ci riesco naturalmente: depresso e tecnologicamente idiota.
Triste triste senza tema di smentite è invece Jay Farrar. Sì, quello che insieme a Jeff Tweedy mise su il più importante gruppo americano degli anni 90 (ma che Nirvana), gli Uncle Tupelo. E' triste triste anche quando parla al telefono. Per questo gli voglio bene quasi quanto a Jeff Tweedy e non riesco di smettere di ascoltare i suoi bellissimi dischi con i Son Volt (era bello anche il suo solista Sebastapol, ma cazzo non lo trovo più nel mio casino esistenziale). Come l'ultimo, American Central Dust, di cui abbiamo parlato un po' ieri sera. Sono anche riuscito a farlo ridere, alla fine, e questa è una bella medaglia che mi metto al petto. Quando gli ho chiesto quale ritiene sia la canzone migliore degli Uncle Tupelo. Mi ha risposto la stessa cosa che mi disse alla stessa domanda il suo amico/nemico Tweedy: Sandusky (che sia un brano strumentale è poi significativo: nessuno dei due ci canta, forse è per quello che entrambi lo amano). Gli ho strappato una risata quando gliel'ho detto, ma non ho avuto il coraggio di chiedergli se ci sarà mai una reunion del gruppo americano più importante degli anni 90 (ma che Nirvana).

State tristi, state felici. L'estate non finisce più. Until the freeze...

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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