Saturday, July 25, 2015

Tree of life

Guarda il riso che ti casca sui pantaloni. Tieni in mano quella forchetta nello stesso modo in cui non riesci più a tirare i fili della tua mente. Ogni cosa si confonde, quel piatto di riso come il tempo e lo spazio. Ogni cosa si sovrappone in una nebbia cattiva da cui emergi a tratti, guardandoti allo specchio, ma in realtà in quello specchio non ci sei più tu. Chi? Un bambino tanti anni fa. Sali le scale alle sei del mattino cercando un pacchetto di sigarette, mi stringi le mani sul collo ma dici che lo facevi per proteggermi perché dalla tua stanza sentivi che mi lamentavo.



Io ti guardo e so chi sei, ma se allungo la mano per afferrati, farti ridere, consolarti tu sfuggi in fondo a quel buco nero. O invece nel buco nero ci sono io, ma che importanza ha. E il riso che ti casca sui pantaloni, la cenere sul maglione e la cicca sui pantaloni, un buco in più che differenza fa. Abbiamo la stessa ansia e le stesse paure. Figli di uno stesso dolore. Sai chi sono? Sono un’ombra che appartiene a un tempo immemorabile e da cui non ti stacchi, sono il volto di tuo padre e di tua madre e di tua sorella, mentre i fili si intrecciano sempre di più e imploriamo che qualcuno li sbrigli. E poi dici, come se non volesse voler dire nulla, che quando Dio vuole servirsi di qualcuno comincia spesso con il ridurlo ad uno zero. Mi sento come quell’albero, secco e senza foglie, i rami che puntano disperatamente il cielo. In attesa di un fulmine che mi squarti e chiuda il conto. Per sempre. Da un albero con le radici secche non può nascere più nulla.

Friday, July 17, 2015

Full moon. And empty arms

"L'unica cosa che io e Bob Dylan abbiamo in comune è il numero delle lettere nel nostro nome di battesimo": scherza così Ben Harper, sul palco del Moon and Stars Festival di Locarno, chiamato ad aprire per il leggendario cantautore.

Umile, simpatico, dispensatore di buone vibrazioni di chiara matrice hippie che lo percorrono in lungo e in largo, il musicista di Claremont, California, ha dimostrato se ce n'era bisogno tutta la stoffa artistica che lo caratterizza, in una accoppiata, la sua e Dylan, che è stata quella americanissima, tra padri e figli, di un'unica identità musicale seppur dispiegata con accenti diversi. Accompagnato dalla sua band storica, gli Innocent Criminals, tornata dopo tanti progetti solisti e paralleli tra cui il bellissimo disco di qualche tempo fa inciso insieme alla madre, Ben Harper ha emozionato la folta platea della Piazza Grande di Locarno, un catino dalla temperatura simile a quella della giungla della Cambogia, con la sua musica piena di riferimenti alla golden age del rock, gli anni 70. Riff presi in prestito da Led Zeppelin e Stones, deliziose ballate acustiche, spruzzate caraibiche ed echi grunge, talento chitarristico purissimo (con l'aiuto del sempre ottimo ex Wallflowers, Michael Ward) specie quando siede con la sua Weissenborn degli anni 20 sulle ginocchia, un talento come se ne ascolta sempre più raramente. Il suo concerto è una festa, tra sorrisi e una band coi fiocchi in cui spiccava il percussionista, autore di vivaci jam con il batterista e il bassista, da aprire squarci della memoria che arrivano fino ai giorni felici di Woodstock.

Concerto aperto da Diamonds on the Inside, che curiosamente ricorda tanto uno dei classici del Maestro che salirà dopo di lui sul palco, e cioè I Shall Be Released, con tante chicche di una carriera ormai ultra ventennale: Burn to Shine, Roses from my Friends, Steal my Kisses, Amen Omen e tante altre. Ben Harper arriva adesso in Italia, il consiglio è ovviamente di andare a vederlo.



Quando la notte è ormai scesa su Locarno, senza che la bolla di caldo sia diminuita, senza annuncio alcuno improvvisamente sul palco appare lui. Con il suo tipico apparente distacco, prende posto davanti a un microfono curiosamente circondato da altri due vintage, di quelli che usavano Frank Sinatra ed Elvis per capirsi. E' il massimo degli effetti speciali che Dylan offre, oltre a due piccoli busti marmorei piazzati sui monitor di cui non si capisce esattamente il senso: una Venere greca e una sorta di Beethoven, si direbbero.

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Friday, July 10, 2015

Fare Thee Well

Una sera del 1978 il giornalista e scrittore Paul Williams, quello che inventò il giornalismo rock, si trovava a un concerto di Neil Young a San Francisco. Era uno di quelli diventati celebri per essere stati documentati nel film "Rust Never Sleeps", uno del momenti topici della carriera del cantautore canadese. Williams incontrò l'organizzatore, il celebre Bill Graham padre putativo della scena musicale della città californiana che gli disse: "Che ci fai qui mentre dall'altra parte della città suonano i Grateful Dead?". Una frase che dice tutto: pur essendo Neil Young impegnato in una esibizione storica, non c'era possibilità di battere i Dead.


"There's nothing like a Grateful Dead" era uno degli slogan che ha accompagnato per decenni la straordinaria avventura della band dello scomparso Jerry Garcia. Questa avventura, benché fosse finita vent'anni fa con la morte prematura del leader, è finita questa volta per davvero con una serie di concerti spettacolari che hanno festeggiato il 50esimo anniversario del gruppo, nato nel 1965. Per l'occasione si è tentata la sfida impossibile di trasmettere nei cinema italiani l'ultimo di questi, quello del 7 luglio allo stadio Soldier Field di Chicago, in leggera differita. Sfida miseramente fallita come era prevedibile: si parla di sale con al massimo quattro spettatori privati anche dell'aria condizionata perché probabilmente costava troppo per il cinema visto l'inesistente incasso. Si sapeva: i Grateful Dead non sono mai stati amati nel nostro paese, non ci hanno neanche mai suonato.

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Saturday, July 04, 2015

For free

C'era una vecchia canzone di Joni Mitchell che più o meno diceva: "Nessuno si fermava a sentirlo suonare, nessuno lo aveva mai visto alla televisione, ma quell'uomo da solo suonava davvero bene, e lo faceva gratis". La canzone, For Free, era una riflessione sul suo ruolo di star super pagata che viaggia in limousine e ha folle adoranti e un musicista di strada che suona per qualche spicciolo. Ma non c'è differenza nel risultato finale: tutti e due fanno bella musica, anzi, sembra suggerire la Mitchell, lui forse ne fa anche di migliore.



La musica arriva dal cuore, e se uno lo ha al posto giusto, non è un problema di soldi. La fai comunque, perché non puoi tenertela dentro, devi farla uscire se no stai male. La devi regalare, magari farai sentire bene qualcuno che passa di lì in fretta.
Donald Gould potrebbe essere il protagonista della canzone di Joni MItchell. Cinquant'anni, senza lavoro e senza casa, è un ex marine, un veterano dell'esercito americano. Magro, pelle e ossa, i capelli lunghi e sporchi, una barba anche quella lunga e incolta. Uno dei tanti barboni che popolano le strade delle opulente città del ricco occidente. A Saratoga, dove sopravvive più che vivere, in Florida, hanno messo un pianoforte su un marciapiede, a disposizione di chi voglia fermarsi e suonarlo. Una cosa bella. Un invito alla bellezza nel caos delle nostre metropoli. Come dire, dai fermati qualche minuto e pensa qualcosa di bello, esprimilo, mettilo in comune.

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Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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