Wednesday, June 22, 2016

You can't stop us on the road to freedom

“Faccio musica da uno spazio introverso per un business estroverso”. Così disse alcuni anni fa Van Morrison nel corso di una intervista con la Bbc. Poco sappiamo, o niente, del travaglio che significa essere un performer, di quello che c'è dietro e dentro quelle figure che vediamo su un palcoscenico, a cui chiediamo tutto e da cui ci aspettiamo tutto. Quelle facce che abbiamo visto centinaia di volte sulla copertina di un disco, amato, idolatrato e magari anche poi schifato. Cosa ne sappiamo veramente di loro? Nulla. Solo qualche indizio colto qua e là e che pochi sanno cogliere, mentre egoisticamente divoriamo la loro carne.
Dichiarazioni colte qua e là in anni recenti, quando questi personaggi raggiunta una certa età hanno cominciato ad aprirsi, hanno svelato solo in parte quel terrore dell’esibizione, perfettamente descritto da The Band nel brano Stage Fright (paura del palcoscenico) che accompagna persone che in quanto artisti nella gran parte soffrono di personalità fragili, contradditorie, a volte depresse. La paura del palcoscenico ha distrutto carriera - e vita di numerosi straordinari artisti, uno su tutti Nick Drake. Ma ne ha salvate molte altre.
Negli anni 90, con una carriera decennale costellata di successi, Van Morrison scrisse un brano che si intitolava “Underlying Depression” che si potrebbe tradurre con “depressione sottostante, nascosta”: “Depressione nascosta, devo strisciare nella mia stanza, depressione nascosta non ne voglio sapere della luna in giugno (“moon in june” è il classico verso che defniva le canzoncine d'amore, nda), fuori c’è una cavalcata di clown che mi fanno sentire giù di morale (…) devo fare qualche concessione quando ogni cosa va bene, devo contare le benedizioni, mi aiutano a superare la notte, nella mia vita c’è amore quanto ci sono problemi e conflitti e una depressione nascosta”. Convivere con uno stato di depressione.




Leonard Cohen ci ha vissuto per quasi cinquant’anni della sua vita: “La depressione è stato un problema per tutta la mia vita e ho provato, come tutti, i diversi modi di trattarla. Sai, la droga, le donne, l'arte, la religione ... si tenta di tutto .... Beh, sai, c'è depressione e depressione. Nel mio caso depressione non è solo il blues, la tristezza. Non è proprio come il giorno dopo una sbornia del fine settimana ... oppure la ragazza che aspettavi e non si è presentata o qualcosa del genere, non è così. Il mio è stato un caso di depressione acuta. Si tratta di un tipo di violenza mentale che fa smettere di funzionare correttamente da un momento all'altro. Si perde qualcosa da qualche parte e improvvisamente si sta in preda a una sorta di angoscia del cuore e dello spirito". Guarito improvvisamente a oltre 70 anni di età, sul palcoscenico, scherzando, diceva: “Da allora ho preso un sacco di Prozac, Paxil, Wellbutrin, Effexor, Ritalin, Focalin, ... ho anche studiato profondamente le filosofie e le religioni, ma finalmente l'allegria ha sfondato la porta”.


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Tuesday, June 14, 2016

"Desire" 40 anni dopo: furore e desiderio, quel fuoco che non si è mai spento

La mia seconda figlia in questi giorni sta facendo gli esami di terza media. Immagini e ricordi lontani nel tempo sbucano fuori. Quarant'anni fa anche io facevo quegli stessi esami. E mi ricordo...

Il ragazzino curvo sul foglio, nel grande tavolo della sala. Sfoglia continuamente un minuscolo dizionario italiano-inglese, poi prende la penna e annota ogni singola parola: “the”, articolo, “il”. Bene, commenta. Va avanti così in quell’impresa impossibile, tradurre i testi di quelle canzoni di “quel” disco. Più difficile quando trova espressioni non contemplate nel vocabolarietto, tipo “son of a bitch” o "nigger". 
Una mattina a scuola il prof di tedesco chiede alla classe di portargli “uno di quei dischi di quei cantanti che ascoltate sempre, mi interessa capire l’uso dell’inglese moderno”. Lui gli porta ovviamente “quel” disco, che per lui è “il” disco (anche perché non poteva permettersene economicamente tanti in prima superiore e comunque era il disco che gli stava cambiando la vita, anche se non se ne rendeva ancora bene conto). Il giorno dopo il prof torna in classe sbraitando e mollandogli malamente indietro il disco: “Ma che razza di inglese è questo, poi è pieno di parolacce, i Beatles sì che cantano usando un inglese scolasticamente perfetto!”. Ecco un buon motivo per starsene alla larga dai Beatles pensa, accarezzando teneramente il suo disco.
Anni dopo, a una cena super posh (cercatelo sul vocabolario) con i dirigenti americani di Mtv che stavano per aprire i loro uffici in Italia, la manager chiede ai giornalisti: “Come avete imparato l’inglese?”. Silenzio. “Ascoltando i dischi rock, immagino”. Tutti alzano la mano: io sì! Anche io! Certo! A lui il pensiero va a quei lunghi pomeriggi spesi a tradurre quelle canzoni, non si alzava dal tavolo neanche se i suoi amici, come fino a poche settimane prima, venivano a chiamarlo per andare a giocare a pallone o se in televisione c'era il suo programma preferito. "In realtà" disse alla donna "io ho imparato l'americano, non l'inglese". Era vero.
D’altro canto non poteva farne a meno. Da quella sera che per puro caso, chiuso in cucina dai genitori che ricevevano nel salotto buono degli ospiti, facendo zapping sugli unici due canali disponibili, Rai Uno e Rai Due, era incappato in quella figura inquietante. Aveva smesso di fare qualunque cosa stesse facendo, non poteva togliere gli occhi dallo schermo della tv e non poteva far altro che ascoltare. Pareti, sedie, casa: nulla esisteva più. Una figura enigmatica, ma talmente carismatica da reclamare attenzione senza fare il minimo sforzo. Come si dice in gergo, "bucava lo schermo". Giacca di pelle nera, una capigliatura stile afro, la chitarra, occhi pieni di furore che lanciavano saette minacciose verso di lui. Voleva essere ascoltato. Si imponeva. Era come una sorta di profeta dell’ultima ora che chiamava a uscire dall’angolo in cui ti eri nascosto. Pentitevi peccatori bastardi, sembrava dire. E tu sapevi che aveva ragione anche se non capivi una parola di quello che cantava.


La voce. Incazzata, rabbiosa, veemente, spigolosa, apocalittica, ma allo stesso tempo sprigionava una melodia strana, magica, ipnotica. Ammaliante. E soprattutto incalzante: non si esce vivi da qui, suggeriva misteriosamente. Non era una bella voce no. Non come quelle dei cantanti che ascoltavano i suoi fratelli maggiori, ad esempio i Beatles. Era una sorta di angelo vendicatore. Una canzone lunghissima che non finiva più. Fece in tempo a sentire dai presentatori il titolo: Hurricane. Da quel momento lo scopo della sua vita fu sapere quanto più possibile di quel cantante che, seppe da suo fratello, si chiamava Bob Dylan. Il primo passo doveva essere comprare il disco che, sebbene uscito a gennaio, era in quella tarda primavera ancora il suo ultimo e conteneva quella canzone: si intitolava "Desire". Internet era probabilmente qualcosa che non era ancora nella mente dei suoi creatori e a metà degli anni 70 scoprivi che un disco era uscito anche mesi dopo la pubblicazione.
A giugno, quando ebbe tra le mani le 5mila lire, regalo per la promozione all’esame di terza media, si recò alla Standa dove sapeva si vendevano i dischi. Chiese alla commessa “l’ultimo di Bob Dylan” ma lei non sapeva quale fosse. Lui le disse il titolo, “Desire”. Lei non lo trovava mentre l’angoscia cominciava a stringergli lo stomaco: ma io devo averlo! diceva a se stesso. Ah eccolo, disse la commessa. Sollievo. Ma si chiama “Desiré” (alla francese). Pagò e lo portò via ripetendo fra sé e sé: presuntuosa ignorante.

"Desire" pubblicato nei primi giorni di gennaio 1976, fu il 17esimo disco della carriera di Bob Dylan, cominciata con il primo album del 1962. E’ un disco unico fra i suoi tanti capolavori, frutto di un periodo particolare di genialità e passione creativa, quando il cantante tornò nei luoghi dove aveva mosso i primi passi da sconosciuto per diventare il più acclamato artista rock degli anni 60 insieme a Beatles e Stones. Tornò al Greenwich Village di New York, dove ancora sopravvivevano i suoi antichi compagni di quei giorni antichi e riprese possesso del suo ruolo, riscoprendo chi era. 
Accompagnato da una violinista zigana incontrata per caso sui marciapiedi del Village e portata in studio, da una sezione ritmica potente e pulsante come un treno nel seguire le sue linee musicali irregolari e improvvisate, e dalla voce meravigliosa di Emmylou Harris, l’ex compagna di Gram Parsons (che si dannò per riuscire ad armonizzare con lui, incapace di aspettare gli altri e sempre avanti), con l'aiuto nel comporre alcuni testi del commediografo di Broadway Jacques Levy, Dylan incise in alcune sedute di registrazioni caotiche la versione rock di Furore di Steinbeck e le visioni dei Vagabondi del Dharma di Jack Kerouac. Un disco che è la messa in scena della New York degli anni 70, delle sue contraddizioni e dei suoi eroi perdenti, di un'America a metà strada nel suo percorso, piena di dubbi e interrogativi.
Rubin Hurricane Carter, il pugile condannato all’ergastolo per un omicidio che non aveva mai commesso; il boss della mafia Joey Gallo che diventa una sorta di Robin Hood che abita e muore nelle Main Streets di Martin Scorsese. La regina degli zingari incontrata nel sud della Francia a cui dedica una preghiera yiddish straziante in One More Cup of Coffee; fuorilegge, santi e peccatori in fuga nel Messico di Pancho Villa inseguiti da un Pat Garrett fuori tempo massimo, in Romance in Durango; un’isola dell’Oceano Pacifico dove un terremoto travolge, come nel film di John Houston L’isola di corallo (anche se lì era un uragano),  l’ambasciatore sovietico, un greco, una donna con un cappello di panama, un soldato omosessuale, un giocatore d’azzardo, il portiere di un albergo, lì esiliati dal mondo della normalità apparente, uniti nella morte. E poi la moglie di Dylan, la cui relazione stava andando a pezzi, dipinta come “un mistico angelo” tra le piramidi egiziane, Isis, Iside, la dea egizia della fertilità in un blues apocalittico seduto al pianoforte come fosse una marcia funebre. Nel disco anche il tempo di uno scherzetto, sorta di spot per un’agenzia di viaggi esotica inesistente – chi diavolo mai avrebbe voluto andare in vacanza in Mozambico? - , Mozambique, a discapito di capolavori registrati in quelle session e lasciati fuori, come Abandoned Love. Ma chi conosce Dylan sa che da ogni suo disco restano sempre fuori uno o due capolavori. Non sarebbe un genio se avesse le idee chiare sulla sua stessa arte e su se stesso.


Il disco si chiude con una disperata implorazione, che porta il titolo della moglie stessa, Sara. Dicono le leggende che mentre Dylan stava registrando questa canzone, lei fosse dietro al vetro dello studio di registrazione. Un momento di cinema verità, di vita, arte, amore e odio che culminano in un momento fotografato per l’eternità. Dopo il divorzio della coppia, un paio di anni dopo, questa canzone non sarebbe mai più stata eseguita dal vivo. 
Con Hurricane infine Bob Dylan, come a inizio carriera, era tornato a essere la voce degli ultimi, di tutti gli“aching ones whose wounds cannot be nursed (…)  the countless confused, accused, misused, strung-out ones an’ worse”. L’America guardava a lui di nuovo come il punto di riferimento, sembrava essere di nuovo colui che “indica la strada” e magari adesso, là dove i presidenti americani affondavano negli scandali e nella mancanza di alcuna ispirazione, in un paese che usciva con le ossa rotte da una guerra inutile e che aveva ucciso i suoi giovani migliori, lui era in grado di portarla fuori dalle paludi del post Vietnam, Bob Dylan stava invece già guardando oltre.

Desire (che all’interno conteneva lunghe note poetiche di Allen Ginsberg, entusiaste, tanto da scrivere di un nuovo rinascimento poetico, simile a quanto accaduto nel 1955 - i poeti beat - e nel 1965 - la controcultura) fu l’ultimo grande successo discografico di Bob Dylan, un milione di copie vendute solo in Italia, ai primi posti in molte classifiche del mondo. Tutte queste canzoni sono state rimosse dal suo autore: quando l’arte incontra la vita troppo profondamente, quello che resta è sangue nei solchi. Lui era comunque già andato via, altrove, a inseguire il mistero della vita, mai pago e per sempre incapace di rimanere nello stesso posto con le stesse persone. “Un milione di facce ai miei piedi ma tutto quello che vedo sono occhi scuri”.
Ma per noi mortali le canzoni restano e il disco può suonare ancora e ancora. Le ferite che sono diverse per ciascun ascoltatore si riaprono e si richiudono con consolazione a ogni ascolto: “Metti su un disco e gli angeli si radunano intorno” aveva promesso Dylan.

Bob Dylan mi ha preso una sera dal mondo dell’innocenza per darmi mille visioni di un lento treno dove il tempo non interferisce, e un tamburino magico quando il dolore senza senso scompare; attraverso giorni di crescita e attraverso le lotte con il mondo e con me stesso, con il sapore agrodolce della solitudine, come un uccello ferito sul filo della luce. Le sue parole taglienti come lama di rasoio mi marchiarono a sangue per lunghi anni, dandomi come una barriera per respingere gli assalti del mondo e del male sino a che venne il momento di pagare il prezzo alla vita e non bastò più nemmeno quello scudo. Ma ancora, in certi momenti, faccio ritorno a quella barriera, un luogo della mente e dell’anima dove io sono io e nessun altro può entrarci. E lì mi sento salvo, al sicuro dal male del mondo. Quelle canzoni sono rimaste. Come un tatuaggio marchiato a fuoco nel sangue. Come un segno. Come un urlo.


Adesso sorrido, insieme a quel ragazzino di quaranta anni fa curvo sul foglio, che non avrebbe mai pensato che quarant'anni dopo Bob Dylan potesse ancora fare dischi e concerti. Sono stato fortunato: quale titolo più bello e autentico poteva avere il primo disco della mia vita di questo: “desire”, desiderio. Il desiderio di una vita piena di occasioni e incontri, di bellezza e felicità impiantato nel cuore, quello che hanno tutti gli uomini e le donne della terra. Non sapevo di averlo, un disco me lo tirò fuori. Ci sarebbe stato un prezzo da pagare, perché per vivere all’altezza del nostro desiderio si prendono pugni in faccia, calci nel sedere, a volte lo eliminiamo noi perché fa troppo male, a volte si palesa inaspettato in un paio di occhi, in un tramonto, in una notte stellata. A volte in una carezza, altre, spesso, in una bottiglia di vino da quattro soldi lanciata a frantumarsi contro gli scogli. A volte fa male, davvero male. Come un cavatappi infilato nel cuore, o come un uccello sul filo che il vento butta giù. Quel desiderio che nessuno può togliermi, se non io. Quel desiderio di essere alla fine accolto da un abbraccio che non finisce più: Oh sister when I come to knock on your door Don't turn away you'll create sorrow Time is an ocean but it ends at the shore You may not see me tomorrow.
Quella sera che fui mandato in cucina per non disturbare.





Ps: l'autore ci tiene a precisare che oggi ama e adora i Beatles... 

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“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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